Tra il 6 e il 20 di agosto navigheremo alle Lofoten con la nostra Cadeau, tornando nelle acque che ci hanno fatto innamorare della Norvegia. Le crociere partiranno da Bodo e avranno una durata di circa 8 giorni. Quelli che seguono sono alcuni estratti dall’Atlante Romantico della Norvegia, pubblicato da Libreria Geografica DeAgostini, un atlante per perdersi e scoprire angoli sconosciuti e non frequentati di un luogo straordinario che ahimè inizia a soffrire per eccesso di turismo. Per dettagli, scriveteci: swan44cadeau@gmail.com
Vaeroy
L’isola è poche miglia a prua oggi 15 luglio 2020, una tensostruttura architettonica, un’area fieristica selvaggia esce dalle acque tra il Vestfjorden e l’Atlantico, in una mite giornata di calma. E’ un’isola tesa, superba, prepotente e supponente. Gli indigeni ci mettono del loro, cercando di limitare i flussi turistici nel modo più naturale possibile, ovvero centellinando vitto e alloggio.
Durante la crisi del merluzzo degli anni ’80, quando si pensava che le capacità riproduttive del generoso pesce fossero in dubbio per l’eternità, il governo norvegese ricoprì di sussidi i pescatori che avessero preso la via dei campi. A Værøy invece di lasciare raddoppiarono, e quando un misterioso Viagra ittico rinfoltì le fila del Gadus Morhua sull’isola iniziò a piovere denaro, ed ora è una delle municipalità più ricche del mondo. Il paese è circondato dalle palizzate dove il merluzzo, salato e appeso, diventa stoccafisso, e in quei tre mesi primaverili a rendere al visitatore la vita difficile si aggiunge un tanfo siderale che però, secondo i locali, è meglio dello Chanel numero 5 perché ‘odora di soldi’.
Come in altre isole della Norvegia l’unica possibilità per divenire proprietari di un pezzo di terra è sposarsi con qualcuno che la possiede. O fare la classica offerta che non si può rifiutare. Questo forte radicamento alla terra non ha aiutato granché un ricambio ematico della popolazione e aveva un bel daffare il prete locale negli anni passati a invitare gli uomini di Sorland, il paese del sud, a cercar moglie quantomeno a Norland, il villaggio del nord. E dire che i due villaggi distano circa 3 chilometri. Sorland, il centro principale, è un disordinato insieme di case costruite con il consueto sprezzo per il panorama ma flirtando con le acque del grande porto, case che sembrano quelle di un postino ma che hanno una flotta a quattro ruote da emiro arabo. D’altra parte qualcosa bisogna pur fare visto che la stagione della pesca dura solo i mesi invernali, sufficienti a mettere in cascina grandi quantità di fieno. Fieno ben meritato perché le acque intorno a Værøy sono, per usare un eufemismo, quantomeno stravaganti e raramente lasciano impunito il marinaio sentimentale. Già, i sentimenti… gli isolani vivono sulla loro nave corazzata e verrebbe di primo acchito la tentazione di descrivere la loro liaison con il mare come di amore e odio, ma questi sono entrambi sentimenti, quindi pericolose distrazioni per il cuore del pescatore che in mare deve limitarsi a pompare sangue di gran lena senza interferire con il resto. Business only.
Svellingen, Il posto delle Fragole
I nostri rapporti con il prossimo si limitano per la maggior parte al pettegolezzo e ad una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato a isolarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana. Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni
Ingmar Bergman, Il posto delle fragole
Skrova è la prima di una catena di isole montuose che raddoppia la maestosità delle Lofoten all’altezza di Svolvær. Il viaggiatore diretto a nord può quindi scegliere tra la strada maestra e rumorosa, seguita ogni giorno da gommoni e catamarani turistici diretti al Trollfiord, il cui fascino principale sta nel nome, e la rotta dei silenzi tra una miriade di isole e isolette sparpagliate lungo la costa nordovest del Vestfjorden. Risvær, l’arcipelago di Svellingen e la costa prospicente sono una ininterrotta serie di giardini delle meraviglie con una vista mozzafiato sulle vette delle Lofoten settentrionali, senza dubbio il mio angolo preferito dell’arcipelago.
Risvær è una coppia di isolette attraversate da un canale stretto e diritto, un porticciolo naturale di raro benessere, delimitato dalle darsene perfette, perchè disegnate dalla geografia del canale e delle isole e del vento. Le barche da pesca hanno da tempo abbandonato queste acque così lontane dall’oceano e dal merluzzo, ma la solitudine, la posizione e l’equilibrio delle case dell’isola non è sfuggito agli indigeni che, con pazienza e gusto, hanno iniziato a restaurare ogni cosa ‘umana’, e trovare una proprietà oggi a Risvær è possibile soltanto contraendo matrimonio con chi è già proprietario. C’è un molo, minuscolo, un piccolo bar, alcuni sentieri, le case e la vista su entrambe le coste del Vestfjorden, e tu sei li tranquillo seduto sul molo, i piedi a penzolare in acqua, e passa una piccola barca, dentro cinque o sei bambini, che pescano e gironzolano come fossero adulti, il fuoribordo ben più grande di loro, sulle acque a specchio del canale, sotto l’occhio vigile dei monti lontani, oggi non c’è vento, domani chissà.
Svellingen era, forse, una volta abitato, a giudicare da qualche rimasuglio di muri di pietra sparso per le isole. Oggi c’è solo un molo, per la verità rachitico, sul fondo di un microfiordo che sarebbe meglio affrontare solo a meteo benigna, tanto è stretto, non si sa mai. Da lì si può andare a spasso per il giardino dell’Eden, ogni spiaggia e ogni roccia disegnate da un saggio architetto giapponese convinto che lo zen sia in fondo barocco. Come sono lontane le Lofoten del pettegolezzo bergmaniano, dal chiacchiericcio, dal turismo da calamita del frigorifero, del cisonostato, della stessa identica foto fatta da migliaia di telefoni diversi. Eppure ai più, in una giornata di pioggia, anche solo l’idea di una manciata di muschi e sassi senza pendenza tradurrebbe noia, desolazione, grigio, mancanza di emozioni. E chissà, avranno anche ragione, non c’è nulla da ‘fare’ qui. C’è solo da ‘essere’.
Vestvagoya e Austvagoya
La comunità Vikinga dell’isola era particolarmente ricca fin dai tempi più remoti. La geografia del tratto di costa tra Stamsund e Mortsund basta a se stessa. Isolotti rossi e lisci, il mare blu intenso, le aquile, le spiagge nascoste, i piccoli canali combattuti tra il rosso e il nero, le montagne a ovest, l’oceano a est.
‘Vedi quella piccola isola? Si chiama Asoya, si, quella con la spiaggetta in fondo alla cala protetta, con quelle case abbandonate. Ecco, mia nonna viveva li. Questa isoletta dava da vivere a 20 persone’
HC è originario di Stamsund, un importante centro di pesca proprio al centro delle Lofoten. La sua storia è semplice. Parte per studiare a Oslo, apre una impresa immobiliare, diventa milionario (facile, a suo dire, nella Norvegia del boom petrolifero) e decide infine di tornare alle radici acquistando la lunga isola di T. che si incunea profonda nel porto di Stamsund. ‘Per una antica tradizione locale tutta la terra delle Lofoten è in mano ai privati, ad esclusione delle chiese e dei municipi. E per di più la proprietà si estende sotto la battigia fino alla profondità alla quale un cavallo inizia a toccare l’acqua con la pancia’. L’isola ospitava, manco a dirlo, un impianto di trattamento del pesce, quindi officine, magazzini, case, cantieri e moli. Mezzo milione di euro chiavi in mano, ‘più altri 4 che dovrò spendere per trasformarla come dico io.. Tra l’altro l’isola veniva con annesso tutto il fianco est della montagna dietro al paese, un posto fantastico dove costruirò stanze disegnate da un architetto affinché i miei ospiti possano osservare l’aurora boreale’.
Qui le radici sono una cosa seria. Narra di un cugino che, nei difficili anni dopo la guerra che aveva lasciato in macerie il nord del paese, partì per Seattle a far fortuna e iniziò così la dinastia americana della famiglia. Dopo due anni riuscì ad acquistare una Cadillac e la prima cosa che fece fu imbarcarla sulla nave e trasportarla fino a Stamsund. All’epoca le Lofoten non erano collegate alla rete nazionale e a disposizione della Cadillac c’erano solo i 600 metri della strada del paese, ma tanto bastava. Passò due giorni a ‘fare le vasche’ felice di avercela fatta e poi ritornò a Seattle.
Skrova
Sono quasi le sei di sera e inizia a fare buio, c’è un vento deciso, che sembra sappia bene dove andare, come sempre nel Vestfjorden. Il traghetto è appena partito, qualche luce è accesa tra le case tutte colorate, qui in modo più eccentrico che altrove, ci si chiede perché visto che il colore è ovunque nell’infinito crepuscolo indaco e pastello di un tramonto che inizia a mezzogiorno.
Skrova, di suo, è bruttina, una manciata di sassi rossastri accatastata sopra le spiagge più intime delle Lofoten, ma ha un porto accogliente, che abbraccia e rassicura, nascosto dietro un faro da collezione. Skrova in effetti è un faro di suo, nel centro del Vestfjorden, a illuminare la nascita di una delle due catene montuose che formano l’arcipelago.
Scendo per ritirare le salsicce che una signora dell’isola alambicca nella sua cantina. Iniziano ad accendersi le luci alle finestre delle case, in guardia ad esorcizzare il grecale artico che scorre tra il mio guscio e muri di legno gialli, azzurri, bianchi e rossi. Il vento sta soffiando tutti i colori verso sudovest, dietro il muro aguzzo delle Lofoten. Cacciavano le balene, fino a poco tempo fa, i marinai di Skrova, le cacciavano lontano, ogni marinaio è una candela alla finestra e la moglie in attesa. Il salmone ha preso il posto della balena, gli arpioni spostati a terra, sul lungo molo che circonda tutto il porto, come a dire guarda, abbiamo smesso perché il rosa rende di più, ma siamo balenieri dentro, se non di va bene hai sbagliato isola, arcipelago, e forse pure paese.
C’è una stupendo murale di una megattera proprio sul muro della fabbrica, di fronte al pontile del traghetto e il viaggiatore europeo è subito colpito perché pensa, ah come, ma qui non le cacciano ancora? Bene! Poi scorre a fianco e inizia una eloquente serie di fotografie d’arpioni che volano, si conficcano, vengono issati a bordo attaccati a carcasse sanguinolente, poi sventrati per tagliare filetti grandi come i motori di un B52. Qui la pesca è una cosa seria. E come in tutte le isole dove il turismo è scarso, le case dal mare quasi non si vedono, nascoste come sono al mare e al vento. Perché il pescatore che rientra a casa non ne vuole più sapere di mare e vento, figuriamoci trovarselo proprio lì, fuori dalla finestra, mentre sorseggia un caffè caldo finalmente libero dal timore che si rovesci.
C’è un mare romantico ed epico, calendari di burrasche che si infrangono ai piedi del guardiano del faro, quadri di vascelli in fiamme al largo della costa, poemi di solitari marinai che sfidano le maledizioni uccidendo gabbiani. E c’è un mare vero, pratico e totalmente indifferente alle nostre sorti, da solcare ogni giorno, che piova o tiri vento, solo perché nasconde ciò che ci nutre o più semplicemente ci conduce altrove. Come faceva notare Conrad l’arte del mare nasce dalle penne e dai pennelli intrisi in calamai che non si muovono. I suoi stessi eroi, Jim, Marlow e Almayer, peccano per mare ed espiano inevitabilmente a terra, risalendo maree e fiumi verso le tenebre e i demoni che risiedono lontano dal mare. Perché il mare non è né bene né male. E’ strada, mezzo, lavoro. Mai un fine. Nulla di ciò che contiene ha un nome proprio, che sia pesce o sirena, crostaceo o mammifero. E il norvegese è estremamente pratico, quindi caccia sempre meno balene non perché sia immorale, ma molto semplicemente perché l’elettricità costa meno dell’olio, i corsetti si fanno in plastica ma soprattutto perché, diciamocelo, la tagliata di balena alla rucola è sì mangiabile ma francamente non un granché. Non cercate di convincere un norvegese che è sbagliato uccidere le balene, perché non capirebbe la differenza tra una megattera e un agnello.
Finestre
Vi vil ha lys i husan. Vogliamo luce alle nostre finestre. Quelle di molti paesi nordici non si spengono mai, c’è sempre una luce ad illuminarle dall’interno, a proiettare un corridoio tra il dentro e il fuori, tra il tramonto e l’alba, tra il passato e il futuro, tra l’estate e l’inverno. In alcuni paesi avvisano che un marito o un figlio è lontano a pesca o a caccia di balene, in altri a ricordare giorni in cui la famiglia tutta è stata costretta a fuggire e lasciare le case vuote per guerre o altri eventi umani. Spesso accanto alla luce c’è il modellino di una nave. Ed è subito c’era una volta un’era in cui le notizie navigavano lente, e quella luce diventa il simbolo della prova più dura che il mare ponga all’uomo: l’attesa.
In tempi in cui basta un piccolo oggetto per rassicurare chi ci attende da ogni angolo del mondo, è difficile capire l’ansia portata dal tempo che sembra smettere di scorrere. Perché se il tempo di un oceano di fronte a chi fugge è breve, quello alle spalle di chi ritorna è lunghissimo. Se i giorni scorrono veloci al solitario che corre verso i suoi sogni, saranno infiniti per chi è lontano da un amore o una famiglia, perché la terra gira più velocemente per l’emancipazione che per la redenzione. E la presenza di una luce a una finestra implica che il tempo scorra davvero molto lento, perché quel corridoio di luce non solo è sempre più distante, ma all’attesa si aggiunge l’incertezza. Perché fino a pochi anni or sono l’anima vicino alla luce non aveva nemmeno idea di dove l’altra anima fosse, o quando sarebbe tornata, e nemmeno se sarebbe tornata.